Stando a quanto rilevato da CGIA di Mestre dei 935 Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) presenti in Italia, 351 (il 37,5% del totale) risultano essere stati firmati da associazioni datoriali e sigle sindacali dei lavoratori dipendenti non appartenenti al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL).
Un numero rilevante di organizzazioni che nella stragrande maggioranza dei casi non rappresentano quasi nessuno, ma consentono un’alternativa a quelle imprese e a quei lavoratori subordinati che vogliono fare dumping economico, e non solo, aggirando i contratti siglati dalle sigle più rappresentative e diffuse su tutto il territorio nazionale.
Tra tutti i settori la situazione più critica e stata riscontrata, e non a sorpresa, nell’edilizia. Stando ai dati elaborati a fronte di 74 Ccnl depositati al CNEL, 37 (pari al 50% del totale) sarebbero stati sottoscritti da organizzazioni non iscritte alla struttura del Ministero. Tenendo conto che l’attività nei cantieri è la più a rischio per numero di infortuni e decessi nei luoghi di lavoro viene naturale chiedersi se, come sembra, esiste anche una diretta correlazione con il “mondo” dell’economia sommersa.
Sempre stando alle elaborazioni condotte dall’Ufficio studi CGIA di Mestre su dati ISTAT il lavoro “in nero” presente in Italia “produrrebbe” ben 77,8 miliardi di euro di valore aggiunto. “Una piaga sociale ed economica“, sottolinea l’Ufficio studi della CGIA, che coinvolge soprattutto le regioni del mezzogiorno, mentre dopo la Lombardia, tra le regioni solo “sfiorate” dal “nero” vengono collocate il Veneto, la provincia di Bolzano, il Friuli Venezia Giulia, il Piemonte e l’Emilia Romagna. In queste realtà il peso del fatturato generato dal sommerso sul Pil regionale oscillerebbe tra il 3,7 e il 4%. Peso del fatturato generato dal “sommerso” che all’opposto raggiungerebbe il 9,8% del totale in Calabria, l’8,5% in Campania, il 7,8% in Sicilia e il 7,1% in Puglia.
A livello nazionale, l’Ufficio studi della CGIA stima in poco meno di 3,3 milioni di persone che quotidianamente per qualche ora o per l’intera giornata si recano nei campi, nelle aziende, nei cantieri edili o nelle abitazioni degli italiani per esercitare un’attività lavorativa irregolare: il tasso di irregolarità rilevato risulta attestarsi al 12,8% mentre il peso del valore aggiunto generato dall’economia sommersa al 4,9%.
“Sebbene non ci sia una correlazione lineare, è evidente che nelle regioni dove c’è più lavoro nero il rischio di avere un numero di infortuni e di morti sul lavoro è più elevato – viene sottolineato nello studio -. Purtroppo, le statistiche ufficiali “faticano” a dimostrare questo assunto; dove dilaga l’economia sommersa, infatti, le persone che si infortunano o non denunciano l’accaduto o, quando sono costrette a farlo, dichiarano il falso per non arrecare alcun danno ai caporali o a coloro che li hanno ingaggiati irregolarmente . Anche per questi motivi, la lotta contro gli infortuni e le morti sul lavoro va intensificata ovunque ma, a nostro avviso, andrebbe potenziata l’attività ispettiva soprattutto nelle aree dove la presenza dell’economia sommersa è più diffusa.”


