direttiva UE

“Made in”, cercasi alternative al muro contro muro. Possibilista Patrizia Toia

Non si tratta di difendere un’industria o un Paese piuttosto che un altro ma i consumatori, che hanno il diritto di sapere dove è stato prodotto ciò che comprano

2 made in toiaQuale prospettiva per l’entrata in vigore del nuovo regolamento europeo in materia di sicurezza dei prodotti di consumo, dove all’articolo 7 è riportata l’introduzione della cosiddetta etichetta obbligatoria “Made in” che ne identifica in modo inequivocabile il Paese di provenienza? Dopo l’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento europeo uscente, lo scorso aprile, il provvedimento continua a dividere gli Stati membri fra i fautori, come l’Italia, che trovano nell’indicazione di origine dei prodotti un forte valore aggiunto in termini di competitività, e i detrattori, fra cui Germania, Regno Unito e Nord Europa. Il semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo potrebbe fare la differenza o essere l’ennesima occasione perduta. Ne abbiamo parlato con l’onorevole Patrizia Toia, (deputato S&D-Partito Democratico), Commissione per l’industria, la ricerca e l’energia, a Milano per la presentazione del nuovo Parlamento UE.  “I parlamentari italiani, e io Patrizia Toiafra questi, sono stati centrali per l’approvazione del testo, adesso il problema è ottenere il consenso nel Consiglio europeo, cioè fra i diversi Governi nazionali. La Presidenza italiana sta facendo l’impossibile. Abbiamo una forte resistenza di molti Paesi, compresa la Germania, che temono che un’identificazione del Paese d’origine metta in grande vantaggio alcuni Paesi, produttori o settori a scapito di altri perché magari, delegando alcune lavorazioni all’esterno, temono non sia l’ultima lavorazione a determinare l’identità di un Paese sul prodotto finito”. Secondo Toia, le opzioni possibili alternative al muro contro muro esistono. “Stiamo cercando di trovare un’intesa, è mia opinione che si possa restringere il campo di applicazione del testo escludendo alcuni settori merceologici e impegnarsi maggiormente sui Paesi che fanno resistenza alla revisione del Codice doganale, chiamato a identificare di fatto le diverse lavorazioni dei prodotti”. In ultimo, “promuovere un’applicazione anche graduale del concetto di Made in”. Il messaggio che deve passare comunque è chiaro. “Non si tratta di difendere un’industria o un Paese piuttosto che un altro ma i consumatori, che hanno il diritto di sapere dove è stato prodotto ciò che comprano. La battaglia è aperta, il tempo stringe se vogliamo approvare il testo nel semestre italiano e non nel prossimo. Noi continuiamo a sollecitare, personalmente sono moderatamente ottimista”. (Olivia Rabbi)

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