normativa europea

“Made in”: il solito blocco di Paesi UE “noti” boccia pure la nuova proposta lettone

Il Consiglio ha visto, alla fine del dibattito, essere contrari all'obbligo di indicazione d'origine - e nella sostanza alla nuova proposta di compromesso avanzata dalla presidenza lettone - Regno Unito, Germania, Austria, Belgio, Slovacchia, Olanda, Irlanda, Repubblica ceca, Finlandia, Ungheria, Lituania, Danimarca, Lussemburgo, Svezia ed Estonia

CompetitivitàNonostante l’ulteriore nuova proposta di compromesso al ribasso stavolta avanzata dalla Presidenza lettone della UE, sul fronte del “Made in” il blocco imposto da alcuni Paesi ha determinato l’ennesimo rinvio. I rappresentanti dei 28, riuniti venerdì e sabato scorsi a  Bruxelles per il Consiglio Competitività, non hanno infatti raggiunto un accordo sul dibattuto articolo 7 del Regolamento sulla sicurezza dei prodotti, relativo all’obbligo dell’indicazione d’origine. Regolamento in materia di sicurezza dei prodotti al consumo che ricordiamo, lanciato nel febbraio 2013 dagli allora commissari all’Industria, Antonio Tajani, e alla Salute, Tonio Borg, per contrastare la contraffazione delle merci UE e garantire la tutela dei consumatori, già nell’aprile dell’anno successivo (2014)  era stato approvato a schiacciante maggioranza dal Parlamento europeo. Approvazione che continua a non trovare riscontro a livello di  Consiglio Europeo alimentato quanti dubitano della buona fede di alcuni Stati nel dichiararsi “convintamente europeisti”. Ed è uno stato di fatto che va avanti oramai da troppi anni e che vede i Paesi  favorevoli all’obbligo di indicazione d’origine ( Italia, Francia, Grecia, Portogallo, Croazia e Spagna) trovarsi di fronte al blocco di  Paesi contrari capeggiati da Germania e Regno Unito, e sostenuti  da Austria, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia. Per sbloccare la situazione di stallo, su richiesta della presidenza italiana la Commissione europea ha realizzato nei mesi scorsi un’analisi di impatto per valutare eventuali costi e benefici dell’obbligo di indicazione d’origine ridotti a soli 6 settori: giocattoli, elettrodomestici, elettronica di consumo, tessile/abbigliamento, calzature e ceramiche. Ma l’aver tolto i settori industriali legati alla meccanica pesante non è bastato per indurre la Germania a cambiare la propria posizione. Infatti sulle conclusioni dello studio, la Commissione ha da un lato sottolineato i benefici certi per i settori delle calzature e delle ceramiche, ma dall’altro ha sollevato dubbi per gli altri quattro comparti presi in esame a cominciare da elettrodomestici ed elettronica di consumo ( ricordiamo che la multinazionale Philips ha sede in Olanda ed il raggruppamento che fa capo a Nokia ha sede in Svezia). Condizione che ha spinto la Presidenza lettone ha formulare una nuova proposta di compromesso che prevedeva un approccio settoriale dell’obbligo, inizialmente circoscritto a due soli settori, calzature e ceramiche da tavola, con una clausola di revisione che contemplava la possibilità di modifiche ai settori coinvolti dopo tre anni dall’entrata in vigore del regolamento. Proposta che portata in Consiglio ha visto, alla fine del dibattito, essere contrari all’obbligo di indicazione d’origine, e dunque alla proposta lettone, Regno Unito, Germania, Austria, Belgio, Slovacchia, Olanda, Irlanda, Repubblica ceca, Finlandia, Ungheria, Lituania, Danimarca, Lussemburgo, Svezia ed Estonia. Hanno invece ribadito la necessità dell’obbligo di indicazione d’origine l’Italia, Cipro, Francia, Bulgaria, Spagna, Slovenia, Portogallo, Polonia, Grecia, Malta, Romania e Croazia. Tra questi, l’Italia si è detta disponibile a negoziare, ma solo se il campo di applicazione della normativa sarà ampliato a 5 settori: ceramica (non solo da tavola), calzature, gioielleria, tessile e legno-arredo. Presente per l’Italia il viceministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda.  La battaglia che da oltre dieci anni l’Italia sta combattendo insieme agli altri governi europei favorevoli all’indicazione del Paese d’origine ( etichettatura da anni obbligatoria sia negli USA che in Cina) è una “…Battaglia di civiltà.  Il “Made in” – ha ribadito   Calenda – permette di comunicare il valore che il paese di provenienza incorpora…Non solo la qualità del prodotto, ma anche gli standard sociali e ambientali che in quel paese sono in vigore“.

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